I ricordi gli andavano incontro, ovunque si volgesse, gli uomini e i tempi lo assediavano. Giuseppe Prezzolini, memoria del Novecento (1882-1982), e suo storico-testimone. Una massa ingente di esperienze, cose viste e vissute, condottieri grandi e funesti, fenomeni politici immani e traumatici, il carisma totalitario, incontro al diarista quasi centenario, come ombre dell’Ade a un Ulisse omerico, che quei ricordi, quelle visioni retrospettive, si poneva a ordinare e a storicamente argomentare, ma li abbracciava anche come cosa vana. Per il precoce osservatore, tornato nei Diari a riflettere sul fascismo nel 1947, non vi erano dubbi che fosse morto e lo si potesse analizzare, a fini di pura conoscenza, autorizzandolo a recuperare quel suo vecchio studio delle origini. Ma sconfitto e defunto, ridotto nel dopoguerra a un partito nominalmente fuori dall’arco costituzionale, il fascismo storico, e i suoi riflessi, continuavano ad aleggiare e a dividere, ad avvelenare, come per gli spasmi galvanici di un cadavere. Ai suoi tempi il fascismo delle squadre, presto statalizzato e gerarchizzato, era stato una epilessia politica, un rigurgito di giovinezza ribalda, un meteo-politico inarrestabile, come una tempesta, aveva spazzato via l’imbelle liberalismo giolittiano e nittiano, messo la museruola ai vacui estetismi dannunziani, aveva fatto strame della libertà (che agli italiani non importava più di tanto), ma aveva cessato ormai di scuotere e scandalizzare.
Per Giuliano il Sofista il fascismo era estinto, non sapremo mai veramente se un caro estinto, avendo frapposto un oceano fra sé e la Roma mussoliniana, i suoi riti (e i suoi crimini). Lo scettico, l’apota, l’anarchico conservatore, mai aveva smesso di non credere. Nessuna fede nelle fedi, e neppure nel fascismo, anche se Prezzolini non nascose mai che la sua simpatia andava alla nuova gioventù contro la senilità liberale. E, pur cittadino della più grande democrazia del mondo, il professore di Columbia fu sempre acerrimo critico delle democrazie.
Il fascismo era stato al centro del secolo - questo il punto - e poteva posare (in pace) sul tavolo anatomico del vivisettore. Questo il disegno saggistico. Se ne poteva scrivere e giudicare con animo libero? La domanda capitale che è al cuore del libro, qui riproposto, fra gli archetipi della storiografia sul fascismo, scritto in francese, pubblicato da Bossard, Paris 1925. Annunciato dall’autore in una lettera a Piero Gobetti del 1° luglio 1924, una nota all’edizione citata segnalava: «Indicato nel catalogo a schede della Biblioteca Nazionale di Firenze al tempo del Fascismo come proibito per il pubblico italiano». Inibito all’interno, era indirizzato pertanto a un pubblico straniero. Questo brillante pamphlet, sintetico e pregnante, manifestò fin da subito la lucida volontà di comunicare i nuclei essenziali di un fatto che era accaduto - potenza ed eloquenza dei fatti - tutto interamente a denominazione d’origine italiana. Una avventura politica, destinata alla tragedia di un’altra guerra, ma che, mentre ne scriveva, ancora si stava svolgendo, anche se aveva pressocché assunto la forma dittatoriale. Mussolini, Gentile, Rocco, i protagonisti sulla scena, nella prassi e nella dottrina.
Una dittatura dunque, una tirannia. Eppure, tenacemente, come un Tacito di una nuova età neroniana, ma dal cronista spesso deprezzata e svilita a burla violenta e triviale di Paese giovane e incivile, Prezzolini insisteva sulla spassionata formula salvifica: Sine ira ac studio. Suprema e impossibile, l’ambizione di essere super partes fu la sua divisa. Nessun omaggio, nessuno oltraggio, nel prima e nel dopo.
A completare il quadro un’istantanea fiumana, al vento dell’Adriatico, un ritratto del Poeta Comandante, Gabriele D’Annunzio, il dispensatore di beatitudini guerriere, la letteratura al potere, come in un regno fiabesco, un sogno o un delirio, prova generale di marcia eversiva contro le odiate istituzioni dello Stato liberale.